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1918 INFLUENZA SPAGNOLA – 2020 CORONAVIRUS : cosa insegna la Storia

La storia ci ha insegnato qualcosa ? Se leggiamo alcuni di questi brani scopriremo quante cose si sono ripetute durante la Fase 1 dell’emergenza 2020 “coronavirus”, rispetto alla pandemia che ha colpito il mondo “soltanto 100 anni fa”, nella fase terminale della Prima Guerra Mondiale, conosciuta come “infuenza spagnola” che provoco’ oltre 50 milioni di morti.

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I brani sono ripresi dal libro “1918. L’influenza spagnola: La pandemia che cambiò il mondo” di Laura Spinney , che consiglio vivamente di leggere per scoprire quante assonanze ci sono con il 2020…

“Nel 1918, non appena l’influenza fu soggetta a notifica e fu riconosciuta l’esistenza di una pandemia, furono messe in atto numerosissime misure di distanziamento sociale. Perlomeno nei paesi che avevano le risorse per farlo. Si decise la chiusura di scuole, teatri e luoghi di culto, furono adottate restrizioni al trasporto pubblico e proibiti i raduni di massa. Nei porti e nelle stazioni ferroviarie fu imposta la quarantena e i malati vennero trasferiti negli ospedali, dove furono creati reparti di isolamento per tenerli separati dai pazienti non infetti. Campagne informative avvertivano di usare sempre il fazzoletto quando si starnutiva e di lavarsi le mani regolarmente, di evitare i luoghi affollati ma di tenere le finestre aperte (si sapeva che i germi prosperano in ambienti caldi e umidi).”

“In alcuni paesi, per esempio, fu raccomandato l’uso delle mascherine protettive

“Alla fine di ottobre 1918, quando l’ondata d’autunno era già cominciata – le stazioni della metropolitana e i teatri di Parigi venivano regolarmente innaffiati di candeggina –,”

“In Francia, per esempio, organismi importanti quali il ministero degli Interni e l’accademia di Medicina ordinarono la chiusura di teatri, cinema, chiese e mercati, ma i prefetti dei dipartimenti applicarono di rado queste misure «per il timore di scontentare l’opinione pubblica»”

Era obbligatorio usare il fazzoletto e aprire le finestre di notte, ma non c’erano conseguenze se non lo si faceva. La polizia poteva fermare chi sputava per strada, multarlo o addirittura arrestarlo se ripeteva l’infrazione, mentre se si partecipava a un incontro politico o a un evento sportivo, violando il divieto dei raduni di massa, il rischio era di vedere irrompere le forze dell’ordine e di essere malmenati a colpi di manganello.”

Il «Corriere della Sera» assunse una posizione originale: riportò quotidianamente i dati sui decessi per influenza finché le autorità civili non lo costrinsero a smetterla perché suscitava il panico tra la cittadinanza.”

“Per Stella era chiaro che la maggior parte dei problemi di salute degli immigrati era sorta in America – non se li erano portati dietro dall’Italia, come piaceva ripetere ai nativisti – e che il vero problema era il sovraffollamento degli edifici in cui vivevano. Nei casi peggiori New York registrò una densità abitativa di 120 mila persone per chilometro quadrato; un dato più alto di qualunque grande città europea dell’epoca e non distante da quello di Dharavi, lo slum di Mumbai attualmente considerato uno dei luoghi più densamente popolati della terra.”

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Alcuni medici sostenevano che il fumo di sigaretta uccidesse i germi, e naturalmente la gente sceglieva il consiglio che preferiva. L’architetto svizzero Le Corbusier si ritirò nel suo appartamento parigino a fumare e a sorseggiare cognac per tutta la fase peggiore dell’epidemia, mentre meditava su come rivoluzionare il modo di abitare delle persone (sebbene non avesse nemmeno un diploma in architettura).”

“Per salvarsi bisognava essere egoisti. Se si aveva una casa, la strategia migliore era restarci (ma senza murarsi dentro), non aprire la porta a nessuno (soprattutto ai dottori), difendere gelosamente le proprie scorte di acqua e cibo e ignorare qualunque richiesta d’aiuto. Non solo le possibilità di restare in vita sarebbero aumentate, ma se tutti si fossero comportati così la densità di individui suscettibili sarebbe scesa drasticamente e l’epidemia si sarebbe esaurita da sola. In generale, però, le persone agirono diversamente. Si aiutarono a vicenda, mostrando quella che gli psicologi chiamano «resilienza collettiva»”

L’influenza spagnola colpì un abitante su tre del pianeta, ovvero cinquecento milioni di esseri umani. Tra il primo caso registrato – il 4 marzo 1918 – e l’ultimo – nel marzo 1920 – uccise tra cinquanta e cento milioni di persone, vale a dire tra il 2,5% e il 5% della popolazione mondiale. Questa stima così oscillante riflette l’incertezza che ancora circonda l’epidemia. Considerando alcuni singoli eventi che hanno causato una perdita eccezionale di vite umane, il dato relativo alle vittime è superiore sia a quello della prima guerra mondiale (diciassette milioni di morti), sia a quello della seconda (sessanta milioni di morti) e probabilmente anche alla somma dei due. Fu la più grande ondata di morte dai tempi della peste nera, forse la più grande nella storia“.

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“Questa fu la prima ondata, relativamente blanda, della pandemia. Provocò qualche disagio, come la normale influenza stagionale, ma non scatenò il panico. Causò un certo scompiglio sui campi di battaglia europei, dove interferì in modo significativo con le operazioni militari.”

“In agosto l’influenza ritornò trasformata. Fu la seconda e più letale ondata della pandemia e, sempre per convenzione, si ritiene che sia scoppiata nella seconda metà del mese in tre punti diversi sull’Atlantico: Freetown, in Sierra Leone; Boston, negli Stati Uniti; Brest, in Francia. Era come se avesse covato per mesi”

“Da Boston, Freetown e Brest la seconda ondata si propagò seguendo i movimenti degli eserciti. All’inizio di settembre, di ritorno a New York dalla Francia sulla SS Leviathan, una nave per il trasporto delle truppe, Franklin Delano Roosevelt – allora giovane viceministro della Marina – manifestò i sintomi dell’influenza e dovette essere accompagnato a terra su una barella. Nei due mesi successivi la malattia si diffuse dalla costa nord-orientale degli Stati Uniti a tutto il Nordamerica e scese nell’America centrale e meridionale, dove arrivò anche dal mare (come avvenne nei Caraibi; la Martinica fu risparmiata fino alla fine di novembre, quando l’influenza la raggiunse, come spesso accadde, su un postale). In Sudamerica, continente che non era stato toccato dall’ondata di primavera, i primi casi si verificarono dopo che il 16 settembre un battello postale inglese, l’SS Demerara, attraccò nella città di Recife, nel Nord del Brasile, con l’infezione a bordo.”

“La terza ondata si scatenò mentre in tutto il mondo ci si stava ancora riprendendo dalla seconda. A New York il picco fu raggiunto nell’ultima settimana di gennaio, e l’influenza arrivò a Parigi mentre si stavano svolgendo i negoziati di pace. Si ammalarono i delegati di diversi paesi; ulteriore prova, sempre che ce ne fosse ancora bisogno, che il virus trascendeva i confini geopolitici. C’è chi ha ipotizzato l’esistenza di una quarta ondata, che avrebbe colpito i paesi del Nord nell’inverno 1919-1920 e tra le cui vittime potrebbero esserci il sociologo tedesco Max Weber e, in Gran Bretagna, il fisico canadese William Osler, colui che aveva definito la polmonite «la vecchia amica dell’uomo». Di solito, però, quest’ultima viene esclusa dalla pandemia vera e propria. Quasi tutti considerano conclusa la terza ondata – e quindi la pandemia – nell’emisfero settentrionale nel maggio 1919. L’emisfero meridionale, invece, andò incontro ad altri mesi di sofferenza, dal momento che lì la pandemia fu scaglionata nel tempo.

Scuole aperte in USA .”….. Copeland doveva aver capito di essere impotente riguardo ai movimenti dei soldati – il presidente Woodrow Wilson aveva seguito il consiglio degli alti gradi dell’esercito e ignorato quello dei medici militari, insistendo che i trasferimenti proseguissero – e potrebbe aver ritardato il momento in cui rendere nota l’epidemia per non ostacolarli. Dopo averla dichiarata, tuttavia, prese tre decisioni fondamentali: innanzitutto scaglionò gli orari di apertura di fabbriche, negozi e cinema, eliminando di fatto l’ora di punta, poi stabilì un sistema di camere di compensazione in base al quale furono creati 150 centri di emergenza sparsi in tutta la città per coordinare la cura e la notifica della malattia. Infine la decisione più controversa: tenne aperte le scuole. All’inizio la sua idea era di chiudere tutti gli istituti pubblici, come avevano deciso di fare due Stati confinanti, Massachusetts e New Jersey. Ma Josephine Baker, a capo della divisione di Igiene infantile del dipartimento di Salute pubblica, una pioniera nel suo campo, lo convinse a non farlo. Era sicura che sarebbe stato più semplice controllare i bambini a scuola, e curarli se avessero mostrato i sintomi. Li si poteva nutrire in modo adeguato – a casa non sempre succedeva – e utilizzarli come tramite per comunicare alle famiglie importanti informazioni igieniche. «Voglio vedere se riesco a tenere lontana dal pericolo dell’“influenza” la generazione di newyorkesi tra i sei e i quindici anni», disse a Copeland. «Non so se ci riuscirò, ma mi piacerebbe da matti poterci almeno provare». Lui glielo concesse, attirando su di sé molte critiche, comprese quelle della Croce Rossa e di ex commissari alla sanità. Ma Copeland e Baker avrebbero avuto la loro rivincita: quell’autunno quasi nessun bambino in età scolare si ammalò di influenza.

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foto tratte dal video RAI STORIA “Il tempo e la Storia” : La Spagnola – la grande epidemia del 1918

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